COVID: cosa abbiamo sbagliato?

Nel 2020 la pandemia da SARS-CoV-2 ha colto il mondo di sorpresa ed ha procurato danni ingenti di tipo sia sanitario che sociale ed economico. Diversi sono gli errori che abbiamo compiuto ed essi hanno contribuito a determinare queste sofferenze. Credo sia utile ricordare questi errori per trarne insegnamento ed evitare di ripeterli nel futuro:

  1. Nel 2001 la spesa sanitaria pubblica in Italia è stata di circa 61 miliardi di Euro; nel 2006 di 93 miliardi di Euro, nel 2019 poco più di 114 miliardi di Euro. Pertanto in 15 anni la spesa pubblica per la sanità è cresciuta di soli 21 miliardi di Euro, assai meno di quella del costo della vita. E’ stato calcolato che il Servizio Sanitario Nazionale abbia perso circa 37 miliardi di Euro negli ultimi 8 anni grazie soprattutto ad una politica rigorista che ha infierito su sanità, scuola, ricerca ed ambiente a favore di Istituzioni economico-finanziarie e di aziende decotte. In sanità questa stretta ha visto riduzioni quanti-qualitative dei servizi sanitari, del personale, dei beni e servizi, della manutenzione e della prevenzione. La salute pubblica ha così pagato un alto prezzo (vedi punto 2).
  2. È stata ignorata la preparedness alle epidemie tanto raccomandata dagli epidemiologi. Da sempre l’umanità è affetta da gravi epidemie che si presentano a tratti e mietono vittime. Dopo la Spagnola del 1918-1920 si è capito che bisogna essere sempre pronti a reagire precocemente alle epidemie perché non si può reagire efficacemente in emergenza. Sono così nati i Centri di Controllo e Prevenzione delle Malattie (CDC) che sono riuniti in rete e sono presieduti da esperti che analizzano le epidemie che continuamente appaiono nel mondo e valutano i rischi che esse comportano per i cittadini dei vari territori. E’ questo il risk assessment, cui fanno seguito vari scenari di gravità che servono a costruire piani di reazione (risk management) e la comunicazione di questi rischi ai sanitari e alla popolazione (risk communication) e relative misure di educazione. Questi piani prevedono anche periodiche esercitazioni per mantenere attivi i meccanismi operativi e la logistica, data anche la partecipazione di molteplici attori alla risposta (sanitari, Forze dell’Ordine, Vigili del Fuoco, Forze Armate, volontari). Anche l’Italia è stata dotata di un CDC con legge 138/2004 e questo Centro è stato collocato presso la Direzione Generale della Prevenzione del Ministero della Salute ed affidato ad un rinomato professionista della disciplina. Anche l’Unione Europea ha costituito nel 2005 un CDC europeo, collocandolo in Svezia presso Stoccolma. Or bene, di tutta questa rete di vigilanza e preparazione non si è nemmeno sentito parlare né in Italia né in Europa e nemmeno negli USA dove i CDC sono nati. Essa è stata evidentemente abbandonata per motivi di disattenzione e/o contenimento della spesa, con il risultato che ci siamo trovati in piena emergenza senza risorse, uomini, attrezzature atte ad affrontarla e facendo così piombare la Nazione in confusione con direttive improvvisate e contradditorie e con una comunicazione davvero infelice. Non ci siamo mossi nemmeno quando l’epidemia era già esplosa in Cina e mieteva molte vittime, quasi che il problema fosse solo cinese. Si sono ance visti conflitti istituzionali e polemiche con grave discredito del Paese, del Servizio Sanitario Nazionale e della scienza. Penoso poi il comportamento dell’Unione Europea che ha dimostrato come l’unione sia poco sentita dai Paesi costituenti ove al contrario sono ancora forti i nazionalismi.
  3. In occasione dell’epidemia da AIDS negli anni ’80, l’allora Ministro della Salute Carlo Donat Cattin stanziò L. 30.000 miliardi in conto capitale ex art. 20 per realizzare in Italia Istituti di Malattie Infettive capaci di trattare questi malati. Tali Centri sono distribuiti nella penisola e lì, soltanto lì dovevano afferire i malati di COVID onde evitare che, accedendo ad ogni Pronto Soccorso e ad ogni Ospedale, si trasformassero in focolai di contagio del CoV-2. Nell’urgenza di una situazione imprevista, e non avendo previsto di potenziare tali Centri di Malattie Infettive anche con strutture prefabbricate, se necessario, i pazienti hanno riempito tutti gli Ospedali del Nord e le relative Rianimazioni, contagiando il personale sanitario dentro e fuori l’Ospedale e divenendo così strumenti di diffusione del contagio. In particolare poi le nostre Rianimazioni si sono rivelate sottodotate, senza scorte di materiali, come quelli di protezione del personale o i ventilatori polmonari. In Germania il numero di posti in Rianimazione è circa 40.000, in Italia poco più di 5.000. La popolazione non è riuscita a trovare mascherine di protezione N95 o FFP2-P3, perché non avevamo scorte né contratti di fornitura vincolanti, e le gare al massimo ribasso avevano indotto le nostre imprese a smantellare le linee di produzione, in quanto non competitive con le imprese cinesi. Drammatica la sorte dei pazienti anziani ricoverati nelle RSA e di quelli rimasti al proprio domicilio, così come quella dei Medici di Medicina Generale che non erano in grado di raggiungerli e visitarli né di eseguire test diagnostici. Sappiamo che la diagnosi e il trattamento precoce della malattia sono fondamentali per evitare che il paziente si aggravi e debba finire in Rianimazione, ma questi pazienti sono stati confinati a casa con assistenza solo telefonica e quindi senza una visita medica né test di laboratorio che potessero confermare o escludere la malattia. Oltre ai pazienti il personale sanitario italiano ha pagato finora con 100 morti questi grossolani errori, ma la cosa che più offende è che l’Autorità sanitaria ha finora sostenuto che le mascherine non erano necessarie, anzi erano sconsigliate alla popolazione giacchè esse dovevano essere riservate solo al personale sanitario più esposto ai rischi di malattia. Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità per il vero ha mantenuto posizioni ambigue con interventi tardivi e discutibili. Le polemiche tra tecnici nei continui spettacoli televisivi hanno poi contribuito a creare confusione e sfiducia nella popolazione. Riprovevole il comportamento delle Televisioni che invece di contribuire a informare correttamente la popolazione hanno organizzato talk-show finalizzati a creare spettacolo senza alcun riguardo alla corretta informazione e alla salute pubblica.
  4. Oggi si pone l’urgenza di far ripartire le attività produttive che sono ormai ferme da oltre un mese. Si è prospettata l’opportunità di effettuare nelle zone più a rischio e nei gruppi più a rischio (sanitari, Polizia, Forze Armate, addetti alla grande distribuzione, etc.) lo screening di anticorpi anti-CoV-2 seguiti nei soggetti positivi da determinazione del NAT per identificare i portatori del virus. Ciò potrebbe consentire di adibire alle attività più esposte quei soggetti anticorpi-positivi, NAT-negativi, che sono immuni e non infettivi, salvaguardando invece gli altri dal rischio di contrarre o diffondere la COVID. Abbiamo evidenza che i test ordinari Elisa per la ricerca di anticorpi sono sensibili e specifici al 90% (vedi dati di Bonino F. e Palù) e quindi possono essere impiegati senza remore, ma per motivi poco chiari i consulenti della Protezione Civile si oppongono a questa ricerca che permetterebbe di riaprire parte delle attività produttive almeno in zone molto colpite dall’epidemia dove si stima che il 50% della popolazione sia entrato in contatto con il virus e si sia immunizzato.

In conclusione, impreparazione, errata politica economica che trascura il benessere della popolazione a favore di interessi economici e finanziari, protagonismi di politici e tecnici, cattivi servizi delle Televisioni, scarsa osservanza delle regole da parte della popolazione stanno mettendo a grave rischio la salute e l’economia italiana. Governi nati da compromessi di palazzo più che dal consenso popolare, dovendo essere legittimati dall’Unione Europea per durare in carica, devono piegarsi al volere di chi non ha particolari riguardi verso il nostro Paese. Non sono stati fatti in Italia da decenni né piani industriali, né piani agricoli e nemmeno piani del turismo, anche se la Nazione affida gran parte delle sue entrate (12% del PIL) ad un turismo di massa talora purtroppo distruttivo.
Tutto questo e altro ancora si può definire impreparazione e malgoverno. Possiamo solo sperare che questa triste vicenda della COVID insegni all’Italia che deve cambiare radicalmente rotta, ripensare alcune Istituzioni e quindi la Costituzione e pretendere che al Governo accedano persone capaci e preparate, se si vuole sopravvivere come Nazione avanzata in un mondo molto competitivo e in rapida evoluzione.

Un buon Servizio Sanitario Nazionale

Un buon Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ha le seguenti caratteristiche:

  1. accesso in tempi appropriati a prevenzione e cura di acuti e cronici
  2. servizi efficaci (qualità e appropriatezza) ed efficienti per tutti
  3. miglioramento della salute a livello di persone singole e popolazioni
  4. costo intorno al 10% del PIL

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L’aziendalizzazione della Sanità

In Italia ci siamo sforzati per anni di assimilare gli Ospedali alle Aziende, importandovi alcuni criteri organizzativi. Probabilmente abbiamo sbagliato di grosso, giacchè “l’ospedale è la più complessa organizzazione mai realizzata(Peter Drucker, NY University) ed è forse il caso che le Aziende imparino dall’Ospedale piuttosto che il contrario, importando anche, oltre e al di là del pareggio di bilancio, i valori che i professionisti sanitari perseguono, quali fiducia del paziente, comunicazione onesta e completa, trasparenza, valore salute sul lungo termine, priorità per l’interesse del paziente, scelte basate sull’evidenza scientifica anche nel management, aggiornamento permanente e motivazione del personale, sua valorizzazione umana e professionale, insegnamento ai più giovani, ricerca scientifica, rispetto e ascolto dei professionisti da parte dei vertici ospedalieri.

(Wiersinga WJ, Levi M. What other industries can learn from health care. JAMA Intern Med 176, 425-26, 2016)

Il nuovo paradigma in Sanità

Fino ad oggi la medicina e la sanità sono state centrate sulla cura, intesa come capacità di reagire ad una malattia insorta nel paziente che si rivolge al sistema sanitario. Così facendo, la spesa sanitaria è continuamente cresciuta fino a diventare insostenibile: il progresso tecnologico e farmacologico, l’aumento dell’attesa di vita e delle aspettative della popolazione, ma anche il cambiamento epidemiologico (che oggi vede nelle malattie croniche non trasmissibili la patologia preminente) hanno contribuito a questo stato di fatto. È arrivato il momento di cambiare paradigma e di passare da una medicina di attesa ad una medicina di intervento preventivo e proattivo, giacchè sappiamo che le malattie croniche degenerative possono essere prevenute adottando stili di vita appropriati, meglio se per tutta la vita. Dobbiamo quindi identificare precocemente le popolazioni di soggetti ad alto rischio di sviluppare le patologie più frequenti e costose ed impostare programmi che, fin dalla tenera età, consentano di non aggravare questi rischi o di non sviluppare la patologia.

Oggi sappiamo che le malattie cardiovascolari, il diabete ed i tumori rappresentano il carico di patologia cronica più frequente, e sappiamo altresì che queste patologie sono causate in buona parte da fattori ambientali e quindi da modificazioni epigenetiche, capaci di modificare la funzione di alcuni geni e di rendere tali modificazioni ereditabili dalla prole. In particolare il fumo di tabacco, la sedentarietà, l’alimentazione eccessiva e non appropriata qualitativamente sono causa primaria delle patologie suddette. Il nuovo paradigma sanitario deve quindi rivolgersi a:

  • realizzare condizioni di vita salutari fin dalla tenera età
  • identificare i soggetti più a rischio di incorrere nella patologia, quando sono ancora apparentemente sani, così da poterli consigliare e trattare in modo da ritardare, se non evitare, la patologia conclamata.

In entrambi questi ambiti molta ricerca è stata fatta e sono stati messi a punto alcuni strumenti e strategie che sono ancora in divenire, ma che già delineano la possibilità di ottenere concreti risultati.

Il primo punto deve essere affrontato con la cosiddetta “Health in all policy”, ossia con una strategia di Governo che ponga la salvaguardia della salute pubblica come priorità di ogni intervento governativo. Oggi così non è, e non è raro che vengano emanati da uno stesso Governo provvedimenti contraddittori (ad esempio leggi di contrasto al fumo che si scontrano con provvedimenti di sostegno alle coltivazioni del tabacco). Si tratta, in altri termini, di allineare i provvedimenti sugli obiettivi di salute pubblica. L’impresa è difficile, perché ben sappiamo che, così facendo, si contrastano interessi economici organizzati e ci si scontra con la visione corta dei Governi nazionali. Bisogna tuttavia operare in tal senso, anche se con dolcezza e gradualità, se si vuole arrivare agli obiettivi: quindi sanità, educazione, marketing sociale, ambiente e urbanistica devono guidare e trainare la crescita culturale del Paese e le strategie per il bene collettivo.

Sul secondo punto, sono in grande sviluppo sia iniziative di popolazione che individuali. Tra le prime, vanno innanzi tutto ricordate le carte del rischio cardiovascolare, che si vanno affinando sempre più per consentire ai governanti di costruire strategie efficaci ed economie sanitarie. Anche l’Italia ha contribuito con il Progetto Cuore alla realizzazione di uno strumento validato, che può ancora essere affinato e più ampiamente utilizzato. Tali carte del rischio sono state messe a punto e utilizzate su larga scala anche in altri Paesi europei e non europei [ad esempio il QRisk-2 (2015) nel Regno Unito]. Uno studio di grande interesse è quello messo a punto in Finlandia per identificare i soggetti a rischio di sviluppo diabete (Finrisc) e poi validato anche in Italia: un semplice strumento che si basa su pochi parametri ha consentito di evidenziare soggetti a rischio di divenire diabetici con buona specificità e sensibilità. Altri strumenti significativi sono quelli tesi ad identificare, nella popolazione generale di soggetti apparentemente sani, le persone a rischio di depressione grave, di fratture ossee, di assuefazione a droghe, ecc., ecc.

Per i singoli soggetti a rischio il vantaggio è di poter riservare loro particolare attenzione ai fini di misure di monitoraggio e di counselling, se non di vere e proprie terapie, onde evitare o rallentare la comparsa e lo sviluppo della malattia. Questi interventi si sono dimostrati costo-efficaci, con alto ritorno sull’investimento e ci si attende che il rapporto migliori con l’affinamento degli strumenti.

A fronte dei vantaggi sopra citati, non può tuttavia sfuggire come sia la somministrazione dei questionari che le successive misure di monitoraggio, counselling e terapia, gravino in larga misura sulla medicina territoriale e sui medici generalisti. I compiti affidati a questi professionisti non possono però continuare a crescere ed è necessario che essi siano affiancati e sostenuti da iniziative organizzative e da tecnologie tese a rafforzarne e migliorarne la prestazione. Tra queste, l’autogestione dei soggetti intervistati e una serie di rilevamenti automatici dei parametri vitali (pressione arteriosa, pedometro, ritmo e frequenza cardiaca, ossimetria, ecc.) e di allerta di rimando affidati agli smartphone. Anche la compliance alla terapia può oggi essere registrata e sollecitata tramite il collegamento internet con le cose (Internet of Things) ed è persino possibile stabilire attraverso i social networks lo stato dell’umore dell’utente e le sue eventuali modificazioni per il monitoraggio delle malattie psichiche. Si tratta di un mondo in grande evoluzione, che sta vedendo la corsa di grandi compagnie allo sviluppo di prodotti vendibili e dove c’è molto spazio perché si inseriscano anche ricercatori e società italiane.

L’efficacia e la sostenibilità del Servizio Sanitario possono quindi migliorare sensibilmente, se i decisori politici adottano questo nuovo paradigma, che però, accanto alla medicina di iniziativa, deve prevedere anche un’assistenza sanitaria basata sul valore, definito come il rapporto tra miglioramento degli esisti di ogni importante condizione patologica rispetto al costo totale del ciclo di cura, e che, a sua volta, include interventi di dimostrata efficacia, abbattimento dell’eccessivo uso di farmaci e di servizi sanitari e un diverso modo di organizzare tali servizi sanitari, tra cui la misura degli esiti, il pagamento forfettario per ciclo di cura, l’integrazione dei servizi sanitari, lo sviluppo e l’applicazione di piattaforme informatiche innovative (cfr Porter, Bell et al., Harvard). Il percorso di cambiamento non può essere né facile né breve, ma deve essere iniziato da subito e portato a termine come obiettivo strategico in un limitato numero di anni, se vogliamo che i Servizi Sanitari servano davvero a mantenere e migliorare la salute della Nazione e continuare ad essere un potente motore di sviluppo sociale ed economico.

 

Letteratura pertinente
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Promuovere la salute è una priorità

Nel Piano Strategico 2016-2020 dell’NIH (National Institutes of Health): “Turning discovery into health” uno dei 4 obiettivi è migliorare la promozione della salute e la prevenzione.

Editorial Biomedical Research in the USA: at the dawn of a golden age? Lancet 387, 1, 2016