L’idea di aziendalizzare la sanità nacque intorno alla metà degli anni ’80 del Novecento all’epoca del cosiddetto Manifesto Bianco per i grandi Ospedali pubblici da parte dei clinici milanesi Sirchia, Veronesi, Boeri, Zanussi e Cornelio onde porre rimedio ad una gestione a dir poco inadeguata di USL e Ospedali e per mettere sotto controllo i loro costi crescenti e non bene giustificati: già infatti era chiaro che le regole della pubblica amministrazione fatte per i servizi di tipo burocratico mal si adattavano a servizi sanitari di tipo imprenditoriale.
L’aziendalizzazione non fu una buona idea per almeno due motivi: 1) non si era precisata quale forma di azienda fosse più opportuna. A me sembra che l’Ospedale potrebbe essere più simile ad un condominio che ad un’azienda, cioè ad un soggetto economico. Il condominio è amministrato da un Amministratore che cura la contabilità, ma si muove solo dopo approvazione della maggioranza dei condomini; nel nostro caso dei Primari (o Capi Dipartimento), identificati da un Collegio di Direzione coordinato da un Direttore Medico su criteri oggettivi di merito. 2) gli economisti e le loro Università colsero questa nuova occasione per realizzare, in accordo con le Regioni, una sorta di azienda di antico stampo (quella di tipo padronale con un unico vertice che comanda e controlla) dove un laureato in discipline economiche, o comunque non mediche, designato dalle Regioni riunisce in sé tutti i poteri di gestione senza dover condividere nulla con il personale medico e non medico che gli dipende.
Nacque così la sanità che oggi è sotto i nostri occhi dove l’obiettivo principale del direttore generale è di tipo economico e ben poco attento a promuovere il benessere di malati e personale sanitario: spesso decide tutto chi non conosce ed è poco interessato a conoscere le finalità vere dell’azienda che governa. Peraltro la spesa sanitaria continua a crescere con il risultato che sono tutti scontenti.
L’epidemia di Covid ha dimostrato che l’incapacità regna sovrana in chi è preposto al governo della sanità. Ci siamo trovati addirittura con un numero insufficiente di medici senza adeguate protezioni individuali, senza scorte strategiche, addirittura senza un piano pandemico nazionale, senza la capacità di comunicare i rischi alla popolazione e ai sanitari; i pazienti si sono trovati soli con gravi difficoltà di accesso all’assistenza medica anche se il personale sanitario si è fatto onore ed ha pagato un caro prezzo. Responsabilità gravissime ma attese in una sanità governata da non medici dove i medici non hanno voce.
Oggi il Servizio Sanitario Nazionale non è più quello che ha visto la luce nel 1978: la cosa in sé è normale, ma non è normale che l’efficienza dei servizi e delle strutture pubbliche sia calata fino a renderli marginali e sia spesso inferiore a quella di organizzazioni private. Oggi è a tutti chiaro che vi sono forti diseguaglianze nel servizio ai pazienti, che la centralità dei pazienti è una mera illusione, che il cinismo è crescente e che il denaro governa la sanità. Il malessere crescente ha stimolato un grande numero di riforme che peraltro non sono riuscite a controllare il malessere e lo scontento della popolazione e si sono limitate a modificare alcuni aspetti organizzativi della sanità creando peraltro servizi sanitari differenti da Regione a Regione, differenze difficilmente comprensibili in un Servizio Sanitario che dovrebbe rispettare equità di trattamento a tutti i cittadini italiani ovunque si trovino. Finora è mancato il coraggio di ripartire dalle necessità dei pazienti e del personale, dall’equità e dall’efficienza dei servizi sanitari erogati per ripristinare quei valori che tutti gli Italiani si aspettano.
Perché tutto questo avvenga dobbiamo innanzitutto darci il tempo per studiare e l’umiltà di copiare le soluzioni organizzative e gestionali che hanno dato i migliori risultati sia in Italia che all’estero. Una riforma sanitaria seria non può essere improvvisata, non può fare a meno di una sperimentazione su piccola scala prima di essere estesa a tutto il territorio e deve avvenire per gradi all’interno di un disegno complessivo, ma soprattutto deve essere condivisa con tutte le forze del Paese e gestita dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Presidenti delle Regioni e non solo da singoli Ministeri. In caso contrario essa genera confusione e demotivazione del personale e sfiducia nella popolazione.
Dobbiamo studiare e scegliere il modello di sanità che più si adatta all’Italia, liberare il campo da slogan, ideologie preconcette, strumentalizzazioni elettorali. Una volta individuato il modello di organizzazione più adatto il secondo obiettivo deve essere quello di rimotivare il personale: non esiste buona sanità senza medici e infermieri motivati. “Make the doctor happy” è il segreto di un grande gruppo americano per rendere contenta la clientela; il personale cura bene i pazienti se la sua motivazione è forte, se il suo merito è riconosciuto, se il suo ruolo nella società valorizzato. Dobbiamo a questo personale se ancora oggi il Servizio Sanitario Nazionale italiano continua ad esistere e funzionare, sia pure con grave affanno.
Serve subito un piano di aggiornamento e di motivazione dei medici e del restante personale. Dobbiamo ricostruire per loro una carriera premiante, riconoscere e valorizzare il merito, ridare loro un ruolo sociale e professionale. Meno regole calate dall’alto e più autonomia di chi lavora in trincea.
Dovremmo anche chiederci se vogliamo continuare ad avere un Ospedale pubblico di proprietà della Regione e da questa finanziato e gestito con le regole della pubblica amministrazione, pensata per servizi di tipo burocratico ma inadatta a gestire un’attività di tipo imprenditoriale. Ci dobbiamo chiedere se non è più utile che la Regione limiti il suo ruolo a definire e verificare i compiti di ogni Ospedale accreditato e ne sorvegli sistematicamente il rispetto, ma conceda la gestione a enti non di profitto (Fondazioni di diritto privato od altro) che diano garanzia di capacità e onestà e comunque siano tenuti sotto stretto controllo. Sarà compito della Regione organizzare e gestire direttamente o indirettamente le visite annuali di una Commissione ispettiva per l’accreditamento mentre lo Stato centrale dovrà definire gli standard di quantità, qualità e costo dei principali Lea, il cui rispetto deve essere verificato dalla Commissione per il mantenimento dell’accreditamento da parte dell’Ospedale visitato. Purtroppo lo Stato centrale è in grave ritardo nella definizione dei suddetti standard, malgrado lo studio dello standard di quantità sia stato avviato già nel 2003 da parte del Ministero della Salute (Campari e coll).
Il riordino della medicina territoriale, altro fondamentale obiettivo della riforma, è allo studio da parte di diversi autori e una versione è stata anche da me proposta (vedi). Personalmente raccomando che essa non si limiti a disegni organizzativi e ad aspetti contrattuali ma investa soprattutto nella valorizzazione del medico curante; curante e non di base o di famiglia o generico perché esso deve diventare il medico di fiducia dei suoi assistiti, aggiornato e motivato. Perché ciò accada bisogna ridurre il carico di lavoro che gli è stato imposto specie quello improprio; egli deve avere il tempo per sé e per la professione, riducendo a non più di 500-800 persone i suoi assistiti. Deve essere portato a livello dei medici ospedalieri per dignità, ruolo sociale, capacità e considerazione dei pazienti. Deve disporre di una carriera e di posizioni universitarie. Finché sarà considerato solo il medico che fa le ricette il problema della medicina territoriale non sarà risolto. Per realizzare tutto questo ci vuole uno sforzo davvero importante e non solo economico.
Un’ulteriore priorità è infine costituita dalla promozione della salute pubblica e della sua tutela anche tramite la prevenzione primaria proattiva a basso costo, oggi possibile con mezzi relativamente semplici (vedi mio blog).
Molte delle enormi risorse spese per la cura (20 miliardi di Euro spesi nel 2021 solo per i farmaci!) potrebbero essere risparmiate se si individuassero e si monitorassero i soggetti a più elevato rischio di sviluppare le più importanti patologie che affliggono la popolazione (cosiddetto Screen and Treat) e si contrastassero seriamente stili di vita non salutari e relativi a interessi organizzati che ne favoriscono la diffusione. Anche di questo ho scritto più volte (blog) e non manca certo una bibliografia più ampia e autorevole.
A proposito di carriera dei medici basata sul merito, ritengo fondamentale ripristinare per i medici ospedalieri le posizioni di direttori, vicedirettori, assistenti senior e junior, specializzandi, volontari frequentatori e legare proporzionalmente ad ogni posizione poteri e responsabilità nonché retribuzione. Bisogna che il Capo Dipartimento o Direttore abbia poteri di gestire il proprio Dipartimento, aggiornare il personale, valutarne il portfolio della conoscenza. Un tempo il Primario era autorevole in quanto scelto in base ad un curriculum basato sul merito, egli era tra i migliori del suo campo ed aveva il potere di organizzare e gestire tutto il personale medico e non medico che vi afferiva. L’amministrazione centrale lo rispettava e ne assecondava le richieste. Oggi non è più così: non sempre il Primario è il migliore della disciplina e non gestisce più il suo personale che addirittura dipende, per infermieri e amministrativi, da un altro responsabile che ne dispone a sua discrezione. Tutti i medici sono dirigenti e sono state cancellate le Scuole di Medicina dove ognuno di noi ha fatto la gavetta e imparato il mestiere. L’amministrazione centrale non ha rispetto per questo Primario e spesso non lo interpella nelle decisioni che prende anche se relative al suo reparto. I medici e gli altri sanitari sono diventati una qualsiasi mano d’opera senza autonomia, ma con grande carico di incombenze e responsabilità.
Nell’interesse del personale e dei pazienti bisogna riportare in capo al Primario la gestione del reparto con relativi poteri e responsabilità per quanto concerne la qualità dell’assistenza e della gestione. Dato che la condizione di oggi è molto più complessa di quella di 50 anni fa il Primario deve poter disporre di una squadra di specialisti con funzioni diverse con cui condividere scelte e responsabilità. Fra questi anche personale amministrativo che lo deve assistere per negoziare con L’amministrazione centrale un budget che se approvato gli dovrà consentire ampia possibilità di azione, inclusi incarichi professionali a termine, ordine di spesa, incentivi economici e promozione del proprio personale in analogia a quello che è un Direttore di divisione in un’industria moderna. Lo stipendio del personale, incluso il Primario, deve prevedere una base fissa e una variabile di almeno il 30% erogata a fine anno in base ai risultati perseguiti.
Anche l’aggiornamento del personale deve rientrare fra i compiti del Primario, possibilmente organizzato come portfolio della conoscenza e dell’esperienza come previsto dal CPD (vedi “Spunti per una sanità migliore”).
Solo così si potranno selezionare i migliori, stabilirne il merito e ridare autorevolezza ai medici levando i poteri decisionali a chi non sa ed è estraneo ai valori della medicina. I Primari migliori potranno poi essere scelti dall’Università per andare in cattedra, cosicché cessi anche l’odioso fenomeno per cui molti cattedratici non eccellono nell’assistenza gettando così discredito sull’Università. Da subito, e prioritariamente, è però necessario che finisca la malsana ed errata concezione che la Sanità sia un costo improduttivo, malgrado le evidenze contrarie. Lo Stato spende per la salute degli Italiani il 6,5% circa del PIL contro il 10-12% di quanto spendono gli Stati europei più avanzati. E’ ora che finisca il tempo dei cattivi maestri e dell’ austerity che essi predicano e che hanno contribuito largamente a dissestare il nostro Servizio Sanitario Nazionale.
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