Il termine Azienda nella sanità è nato ad indicare l’utilizzo di strumenti gestionali propri delle organizzazioni private per la gestione di quelle pubbliche. Purtroppo tuttavia tale uso ha prodotto degli effetti negativi: 1) in mancanza di veri ed esperti manager, la gestione è finita nelle mani di burocrati che ne hanno storpiato il significato e l’applicazione; 2) ne è nato un sistema verticistico e non di rado dispotico in cui tutto il potere è nelle mani di un Direttore Generale di nomina regionale e di formazione non medica, che è a sua volta vittima dell’ossessivo centralismo regionale. Egli infatti, in quanto nominato, è sotto scacco continuo ed è tenuto all’osservazione scrupolosa delle disposizioni sempre più minute che gli vengono impartite dalla Regione. In questo contesto, inoltre, l’aspetto medico ed assistenziale sono ormai passati in secondo piano rispetto a quelli economici e politici. In una simile situazione non ha più senso parlare di autonomia dell’Azienda e di iniziativa personale; in realtà non ha più senso parlare di Azienda, anche perché questa, al contrario delle Aziende private, è vincolata dalle regole sempre più stringenti della pubblica amministrazione che, lungi dal garantirne un buon funzionamento, la penalizzano e rendono impossibile la concorrenza col privato. Quando queste cosiddette Aziende pubbliche si trovano ad erogare servizi al pubblico si assiste al prevalere dell’inefficienza e dell’inerzia sull’interesse del cittadino che chiede questi servizi e da cliente-utente viene trasformato in suddito. Ciò non vuol dire che nell’Azienda sanitaria pubblica non operino ottimi professionisti, ma mancandole gli strumenti e una moderna e motivante gestione del personale nonché, grazie ai contratti nazionali del lavoro, la possibilità di premiare il merito e scoraggiare il demerito, coesistono soggetti che tengono comportamenti scorretti e inefficienti. E ciò spiega almeno in parte un antico male italiano, quello della raccomandazione. Per raggiungere il buon medico, ossia colui che sa lavorare bene e si prende a cuore la causa del paziente, bisogna che qualcuno intervenga a segnalare questo utente al suddetto professionista o che il ruolo sociale di questo utente sia così importante da imporlo all’attenzione del medico o dell’Azienda. Allora si superano le lunghe liste di attesa o i pagamenti intramoenia che il cittadino comune non segnalato deve affrontare. E tutto continua così da anni malgrado le continue affermazioni di centralità del malato, di servizi pubblici che non discriminano, di diritto alla salute ed altre ben note declamazioni demagogiche.
Per i grandi Ospedali metropolitani, ossia quelli che ospitano l’Università, e per gli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) che devono fungere da centri di riferimento sia per l’assistenza, sia per la ricerca clinica, sia per la didattica, avevamo ritenuto che questa situazione dovesse essere rivista e migliorata giacché questi Ospedali sono gangli vitali per il Paese, per la sua dignità e per il suo progresso. Con la legge 288/2003 si è cercato di aggirare l’ostacolo trasformandoli in Fondazioni di diritto privato e dotandoli di un Consiglio di Amministrazione che desse spazio ad istituzioni pubbliche e a investitori privati. Ma l’iniziativa è stata affondata dal ricorso che prontamente alcune Regioni hanno avanzato con successo alla Corte Costituzionale alla luce della modifica del Titolo V della Costituzione, che ha trasferito alle Regioni il potere sulla sanità. Tutto è quindi rimasto come prima e oggi questi nostri grandi Ospedali sprofondano sempre più nelle ristrettezze economiche, nell’inefficienza e nella palude burocratica. Crescono invece le responsabilità e il lavoro per i medici e per l’altro personale sanitario che oggi sono profondamente demotivati e lasciano l’Ospedale pubblico giacché questo non rappresenta più il luogo dove era bello e motivante lavorare, fare clinica e ricerca, appartenere a una scuola di medicina dove ogni componente era orgoglioso di esserci anche se il salario non è mai stato ricco. Tutto questo è il risultato di una politica fondamentalmente poco interessata ai motori di sviluppo della Nazione (sanità, scuola, Università, ricerca, ambiente) perché di corta visione, ma anche di errori di tutti noi che non abbiamo saputo far sentire la nostra voce e far capire le ragioni e i pericoli alla popolazione, non abbiamo saputo esprimere un sindacato credibile e propositivo, e che siamo parte di una società costituita da singoli individui che convivono, ma che non sanno riunirsi a coorte e lavorare insieme per il bene comune oltre che per quello individuale. Non dimentichiamo inoltre che l’organizzazione dello Stato italiano è estremamente complessa e per non cadere nei rischi del passato il potere è stato distribuito in troppi centri e troppi livelli, con il risultato che oggi comandano tutti (nel bloccare le iniziative) e non comanda nessuno (nel realizzare miglioramento e innovazione). Difficile vedere una soluzione a situazioni tanto serie e inveterate. Non resta che adoperarsi perché possa emergere una classe dirigente politica e amministrativa più colta e avveduta.