Ci saranno la ripresa e la crescita economica?

L’attuale crisi economica è l’inevitabile conseguenza di un sistema economico sbagliato. Questo infatti si basa su pratiche scorrette: da un lato il consumismo, dall’altro la speculazione finanziaria, entrambi senza regole e senza paletti etici. Entrambi sono tesi a produrre denaro per una parte degli individui indipendentemente dalla loro utilità (o danno) per la restante società umana. Il consumismo è finora piaciuto a tutti noi: la gente acquista merci o servizi sempre nuovi e vive più agiatamente. I produttori e i commercianti vendono e guadagnano, l’occupazione è salva.

In un sistema competitivo di libero mercato si è però dimenticato che i beni e i sevizi prodotti devono rispettare tutta la società, evitando di danneggiarla nel nome del profitto. Non basta il profitto a giustificare il nostro operato. Così per continuare a produrre e a competere le industrie hanno generato prodotti di qualità inferiore e vita limitata. Se i prodotti non si rovinano come si fa a produrre continuamente? Esse inoltre hanno generato nuovi bisogni utilizzando la pubblicità, che è rivolta anche ai bambini e ai giovanissimi più sensibili degli adulti ai richiami. Vengono inventati nuovi miraggi, mondi affascinanti, necessità di assimilarsi a comportamenti di persone importanti, e così via. Spesso la pubblicità è ingannevole, ma le sue tecniche raffinate fanno presa sul pubblico di grandi e piccini. Ecco perché alcuni produttori investono più denaro per la pubblicità che per la qualità dei prodotti. Il grande pubblico spende, compera, e quando i soldi sono finiti si indebita. Ma ecco che interviene la finanza che inventa strumenti di debito sempre più sofisticati: carte di credito, vendite a rate, fidi in banca offrono a tutti per anni la possibilità di continuare a spendere per comperare. E tutti comperano, soddisfano nuovi bisogni spesso indotti dalla pubblicità: bambini che pretendono vestiti griffati, quaderni di marca, alimenti di certe marche, automobili e telefonini di ultima generazione, ecc., ecc.. Ma anche genitori che assecondano tali richieste perché loro stessi sono schiavi della pubblicità, anche quando questa è notoriamente rivolta a promuovere prodotti dannosi per la salute (fumo di tabacco, alimenti confezionati, ecc.).

Tutta questa produzione ampia e veloce genera anche al pianeta danni crescenti: crescono i consumi di energia fossile, cresce l’effetto serra, crescono i rifiuti e le discariche, si riducono le foreste, la biodiversità, in una parola l’equilibrio della natura. Cresce anche la popolazione e crescono il divario tra le popolazioni e tra gli individui in termini di diritti fondamentali, ricchezza, condizioni di vita, salute, equità. Ciò genera anche le guerre, molto ben viste da quei produttori e quegli Stati che con la guerra si arricchiscono e si impadroniscono di beni e risorse altrui.

Il secondo effetto calamitoso è la finanza improduttiva e speculativa, ossia quella che non produce beni o servizi, ma che vende e compra denaro (o debiti) per fare denaro. Ed ecco comparire gli strumenti finanziari più impensati, dai derivati ai computer che operano in borsa al posto degli operatori, dalle assicurazioni sui debiti alle speculazioni valutarie. Ma se tutti continuano a spendere viene il momento in cui il denaro non basta più, né per i singoli né per gli Stati. Ed ecco la crisi: scoppia la bolla dei debiti, che oggi alcuni valutano in 700.000 miliardi di dollari. Una cifra incolmabile.

Il rimedio per tamponare e tirare avanti è stampare moneta e immetterla sul mercato sperabilmente non per riattivare la speculazione finanziaria, ma per promuovere attività produttive utili: il valore della moneta scende, i debiti si riducono in valore, i consumi ripartono. Ma non tutti possono pemettersi queste manovre, ed in particolare non se lo può permettere l’Italia vincolata dai trattati dell’Eurozona. Ma in ogni caso si tratta di un rimedio parziale e temporaneo. La realtà è che siamo arrivati ad un punto in cui bisognerebbe fare una riflessione sul nostro sistema economico e cominciare a fissare alcune regole al sistema perché questo cominci ad operare non contro, ma a favore dell’umanità e della terra, che è ormai a grave rischio di sopravvivenza. Si dovrebbe arrivare ad una collaborazione forte e coraggiosa tra gli Stati, che invece continuano a combattere in modo miope per assicurarsi senza esclusione di colpi privilegi, potere e denaro.

Per il momento questa volontà di risolvere i problemi che ci minacciano e che inesorabilmente ci portano su una via di non ritorno non si vede, così come non si vede, perché non si può vedere, una via di uscita vera dalla crisi, che consenta a tutti gli umani di guardare al futuro con più fiducia e di vivere davvero meglio, non con l’acquisto di beni inutili, ma con la serenità ed il benessere psicologico.

Il domani

Come stanno oggi le cose, io non credo che nel prossimo futuro l’Italia possa andare meglio. La ragione è semplice: tutti i governi che si sono succeduti e anche l’attuale non hanno saputo o voluto affrontare le ragioni basilari della crisi economica, e cioè: 1) Ridurre drasticamente la spesa pubblica, 2) Ridurre la rigidità dei rapporti di lavoro aumentando la flessibilità in entrata ed in uscita. Sul primo punto la politica non sente ragioni: una spesa pubblica di oltre 800 miliardi di Euro l’anno rappresenta circa il 50% del PIL, cioè della ricchezza prodotta dagli italiani. Se non si abbatte la spesa pubblica improduttiva non c’è tassazione che tenga. Ma la spesa pubblica significa anche privilegi, potere, agiatezza. Gli scandali sono ormai quotidiani: i costi della politica e del sindacato, gli sprechi e la corruzione ad ogni livello, gli alti stipendi dei manager anche quando fanno fallire l’azienda, i carrozzoni pubblici (di Stato, Regioni, Comuni), ma anche gli inutili e dannosi molteplici livelli di governo, la caste che spadroneggiano, e avanti così in una litania che abbiamo imparato a recitare da tempo. Il tema dei sindacati è altrettanto intoccabile. Regole oggi intenibili stanno riducendo i posti di lavoro e dislocando all’estero molte imprese. Ma i sindacati continuano con i vecchi slogan: il lavoro precario è diventato il nemico da colpire. Ma con il termine di “precario” si intende anche i contratti di lavoro a termine, che esistono in tutto il mondo e sono una necessità assoluta per le imprese. Da noi il lavoro deve essere a tempo indeterminato e chi è assunto diventa subito un dipendente a vita, anche se non lavora o lavora male. Ma le decine di migliaia di sindacalisti che vivono in Italia a spese della collettività sono una casta ormai intoccabile, nulla si muove senza la concertazione: ciò significa che politica e sindacato hanno stretto un’alleanza che se ne infischia della crisi e degli italiani, perché il potere è potere.

Un governo di larghe intese o di emergenza avrebbe potuto sciogliere questi nodi e salvare l’Italia. Ma i nostri politici sono impegnati in una continua faida elettorale, incuranti del declino del Paese. Vivono di alterchi, vivono nei talk show televisivi per essere visibili. La maggior parte di essi non ha senso di responsabilità alcuna, contrariamente a quanto viene continuamente vantato, e in definitiva non ha alcuna capacità di governo. Incapaci e avidi, come sempre sono stati i politici di professione, gente che non ha mai lavorato e non sa fare niente. Gli esempi si sprecano: gente incapace e piena di sé che sta trascinando l’Italia al dissesto. La svolta, il nuovo paradigma ancora non si vede, ma comincio a pensare che forse non si vedrà ancora per un bel pezzo.

La crisi economica (Spigolature)

Secondo W. Stanley Jevons tra una crisi economica e l’altra intercorrono circa 10 anni, quanti occorrono perché dopo la depressione dei consumi, la produzione in eccesso che ne consegue, la riduzione del credito e il malessere psico-sociale della popolazione inizi la lenta ripresa del nuovo periodo ascendente del benessere, con ripresa dei consumi, crescita della produzione, trasformazione del risparmio in beni mobili e immobili, aumento del credito.

(citato da V. Pareto, Manuale di Economia Politica, 1906)