Nel corso della sua vita professionale, il medico deve oggi confrontarsi con tre realtà relativamente nuove, che si sono realizzate e affermate negli ultimi decenni: una giurisprudenza ad hoc, un incremento significativo dei procedimenti di rivalsa per colpa e dei relativi risarcimenti, un diverso status sociale del medico che incide a sua volta sull’alleanza tra medico e paziente.
1. UNA GIURISPRUDENZA AD HOC. Osserva il magistrato romano Dr. Marco Rossetti nel Quaderno del Massimario su Responsabilità Sanitaria e Tutela della Salute, Ufficio del Massimario, 2011, edito dalla Corte Suprema di Cassazione, che, contrariamente al passato, allorquando il medico era il dominus e operava per conto del paziente per il suo bene secondo scienza e coscienza senza la necessità del suo consenso, oggi si ritiene che il dominus sia il paziente, mentre il medico e il Servizio Sanitario Nazionale sono prestatori d’opera e di servizi di cui egli si avvale per tutelare o ripristinare la sua salute.
In questa veste il medico non può prendere iniziative di cura che non siano condivise dal paziente, in quanto quest’ultimo è titolare di due diritti costituzionali: diritto alla salute e diritto all’autodeterminazione (artt. 2, 13, 32). A questa svolta epocale hanno certo contribuito un servizio sanitario ad impronta pubblica e socialista e l’incremento enorme della tecnologia e della specializzazione dei medici, per cui il paziente non ha più solo un medico che si prende cura di lui, ma un insieme di figure professionali che egli più spesso non può scegliere e che ruotano su di lui determinando, di fatto, una sempre maggiore “spersonalizzazione” del rapporto, che si incentra più sulla struttura di riferimento piuttosto che sul medico “di fiducia”. In questo mutato contesto relazionale è mutato, conseguentemente, anche il concetto di responsabilità professionale dei medici e la giurisprudenza è venuta elaborando negli anni nuove regole ad hoc per la responsabilità medica, considerata oggi come un sottosistema della responsabilità civile.
Come sottolinea Marco Rossetti (vedi sopra), si consideri infatti che:
(a) mentre secondo i principi generali del diritto civile l’onere di provare l’esistenza della colpa del danneggiante incombe sul danneggiato; nel caso della responsabilità medica la giurisprudenza ritiene che il paziente possa invocare la presunzione di colpa, anche quando non sia stato concluso nessun contratto tra quest’ultimo e il medico. Attualmente sembra sia in corso un ripensamento di questa posizione, innescato dal cosiddetto Decreto Balduzzi 2012 (D.L. 158/2012 e Legge 189/2012) e recentemente rafforzato da una sentenza emanata dal Tribunale di Milano il 17 luglio 2014. Questa sentenza si discosta dalla sentenza N. 589/1999 (e da altre seguenti, inclusa quella di Cassazione n. 4030/2013, che ne hanno ricalcato l’impostazione fino a farne una prassi corrente, una vera e propria “giurisprudenza normativa” secondo il Presidente Giorgio Santacroce) che ha riportato l’obbligazione del medico nell’ambito della responsabilità contrattuale imponendo di conseguenza al medico l’onere della prova di non colpevolezza. La sentenza del Tribunale di Milano afferma che il paziente che si ritiene danneggiato deve produrre prova della colpevolezza del medico e/ o della struttura e chiedere il risarcimento entro 5 anni per il medico (non più 10 anni come era in uso fino ad oggi) ed entro 10 anni se il risarcimento si chiede alla struttura sanitaria. Oggi è fondamentale che il legislatore intervenga a chiarire la situazione per evitare che il medico riceva trattamenti differenti a seconda del Tribunale dove sia convenuto in giudizio (cfr. Occorsio V. e Pittella D., Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2014, pag. 44).
(b) in base alla prevalente interpretazione delle disposizioni contenute nel codice penale disciplinanti il nesso di causalità materiale che deve sussistere tra la condotta illecita e l’evento di danno, quest’ultimo si può ritenere “causato” dal danneggiante quando vi sia la prova positiva che, senza la condotta del responsabile il danno non si sarebbe prodotto; nel caso di responsabilità medica, invece, la giurisprudenza ritiene configurabile l’esistenza del nesso causale anche quando vi sia incertezza circa l’effettiva causa del danno, a condizione che il medico abbia posta in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno;
(c) è altresì principio generale, in tema di responsabilità civile, che il danneggiante non possa rispondere dei danni quando nella sua condotta non siano ravvisabili profili di colpa; in tema di responsabilità medica, tuttavia, la giurisprudenza ha spostato a monte la valutazione in termini di colpa della condotta del medico, esigendo non soltanto che sia diligente l’esecuzione dell’intervento, ma anche che il paziente sia diligentemente informato della natura e dei rischi della prestazione medica; con la conseguenza che, in difetto di informazione, il medico potrà essere chiamato a rispondere delle conseguenze sfavorevoli dell’intervento;
(d) un quarto, apprezzabile scostamento del “sistema” della responsabilità medica rispetto ai principi della responsabilità civile è rappresentato dall’estensione della colpa per omissione. In ambito extracontrattuale, ognuno ha l’obbligo di astenersi dal violare l’altrui sfera giuridica (neminem laedere), ma nessuno può essere costretto ad attivarsi per preservare gli altrui beni. Il medico, invece, anche quando opera al di fuori di un rapporto contrattuale, è tenuto a conformare la propria condotta agli stessi princìpi di correttezza e buona fede che presiedono all’adempimento delle obbligazioni contrattuali, ed ha l’obbligo di attivarsi, anche ben oltre il limite dell’apprezzabile sacrificio, per accertare e curare non solo le patologie per le quali sia stato ricoverato, ma anche qualsiasi altra patologia dalla quale il paziente sia affetto, ove obbiettivamente riscontrabile.
La tabella riassume le differenze tra responsabilità civile generale e “responsabilità medica”. Non basta quindi che l’atto medico sia diligente, ma è necessario che il paziente sia informato, ossia che ne conosca i dettagli per poter dare o negare il consenso.
La diligenza del medico non vuol dire che egli debba eseguire una terapia piuttosto che un’altra, ma che il suo comportamento sia stato diligente, ossia adeguato per attenzione e preparazione professionale. Per non essere colpevole il medico deve comportarsi come un bravo medico.
Può dunque concludersi che, per la Corte di Cassazione, il medico “medio” di cui all’art. 1176, comma 2, c.c. da utilizzare come termine di paragone per misurare il livello di diligenza esigibile, non è un medico mediocre ma al contrario deve essere un medico bravo, anzi, molto bravo: un medico che si aggiorna, che va ai convegni, che studia, che si preoccupa della sorte del cliente anche quando non è tenuto ad essere presente in ospedale, che consiglia al paziente tutte le alternative terapeutiche possibili e ragionevoli.
Per il diritto quindi l’asticella della diligenza professionale minima, ex art. 1176 comma 2, c.c., per il medico è collocata (giustamente) molto, ma molto in alto, e non sarà superfluo ricordare che questo approdo è stato il frutto di una evoluzione risalente, difficile e spesso ostacolata.
Oggi non solo si ammette che qualsiasi scelta terapeutica del medico sia sindacabile dal giudice, ma si ritiene che anche modesti errori possano essere fonte di responsabilità.
È però anche doveroso oggi riconoscere che questa straordinaria evoluzione delle regole di giudizio in materia di responsabilità medica ha riguardato solo ed unicamente l’attività sanitaria. Ancora oggi, infatti, al di là delle affermazioni di principio nei giudizi di responsabilità civile a carico di altri professionisti (penso, ad esempio, a magistrati ed avvocati), la giurisprudenza si è mostrata incline a valutare con particolare mitezza i profili di colpa di questi ultimi.
Il CONSENSO INFORMATO
Le norme in vigore indicano quanto segue:
– il medico ha l’obbligo di informare sempre e comunque il paziente, tenendo conto delle sue capacità di comprensione ed adottando forme adeguate quando l’informazione ha ad oggetto una prognosi infausta: tale obbligo viene meno nel solo caso in cui il paziente chieda espressamente di non essere informato;
– l’informazione sub (a) deve risultare per iscritto;
– dinanzi al dissenso alle cure manifestato da un paziente capace d’intendere e di volere il medico deve astenersi dall’intervenire;
– se il paziente è incapace di intendere e di volere, il medico deve:
- intervenire sempre nei casi d’urgenza;
- “tenere conto” della volontà precedentemente manifestata dal paziente, a condizione che tale volontà sia stata espressa “in modo certo e documentato”;
- astenersi da ogni accanimento terapeutico;
- infine, nel caso di malati terminali ed incoscienti, il medico deve “proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Se il sostegno vitale includa anche l’idratazione e l’alimentazione è ancora oggetto di discussione.
Oggi la giurisprudenza afferma espressamente che l’obbligo del consenso sussiste non solo in relazione alla necessità di intraprendere interventi devastanti o complessi, ma per ogni attività medica che possa comportare un qualche rischio: quindi il medico ha l’obbligo di informare il paziente sia quando intende compiere attività chirurgica sia quando intende compiere esami diagnostici o strumentali.
L’informazione fornita deve essere completa (Corte di Cassazione, sentenza n. 19731 del 19 settembre 2014) e comprendere, in particolare:
- la natura dell’intervento o dell’esame (se sia cioè distruttivo, invasivo, doloroso, farmacologico, strumentale, manuale, ecc.);
- la portata e l’estensione dell’intervento o dell’esame (quali distretti corporei interessi);
- i rischi che comporta, anche se ridotti (come effetti collaterali, indebolimento di sensi od organi, ecc.);
- la percentuale verosimile di successo ;
- la possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi, ed i rischi di questi ultimi;
- le eventuali inadeguatezze della struttura ove l’intervento dovrà essere eseguito.
Occorre infatti evidenziare che il dovere di informazione che ricade sul medico non si limita solo all’atto terapeutico o chirurgico che deve essere realizzato e condiviso, ma si estende anche alle carenze ed inefficienze della struttura in cui il medico opera e alla quale si è rivolto il paziente: sul punto la Corte di Cassazione nel 2004 e nel 2011 ha avuto modo di precisare che il medico ha il dovere di informare il paziente anche delle eventuali carenze e/o inefficienze della struttura; altrimenti si determina un vizio nell’informazione che determina il vizio del consenso rilasciato dal paziente.
Il giudice di legittimità ha dunque posto criteri rigorosi all’obbligo di informazione; esso comprende tutti i rischi prevedibili, anche se la loro probabilità è minima, mentre non comprende i rischi anomali, cioè quelli che possono essere ascritti solo al caso fortuito.
È quindi in colpa (da inadempimento contrattuale) sia il medico che non fornisca al paziente le necessarie informazioni, sia quello che le fornisca in modo insufficiente o errato.
Il consenso, inoltre, deve essere continuato. Esso non può essere prestato una tantum all’inizio della cura, ma va richiesto e riformulato per ogni singolo atto terapeutico o diagnostico, il quale sia suscettibile di cagionare autonomi rischi.
Infine deve escludersi che l’informazione (e quindi il consenso che su essa si fonda) possa essere data a persona diversa dal paziente, quando questi sia maggiorenne e capace.
Il problema del rapporto tra completezza dell’informazione e tutela psichica del paziente è stato affrontato dal Comitato Nazionale per la Bioetica che, in un proprio studio del 20.6.2002 dedicato a “Informazione e consenso all’atto medico”, ha fissato due linee guida; “(a) il curante deve possedere sufficienti doti di psicologia tali da consentirgli di comprendere la personalità del paziente e la sua situazione ambientale, per regolare su tali basi il proprio comportamento nel fornire le informazioni; (b) le informazioni, se rivestono carattere tale da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, dovranno essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti e sempre corredate da elementi atti a lasciare allo stesso la speranza di una, anche se difficile, possibilità di successo”.
Il consenso pertanto:
- deve essere completo
- deve essere continuo
- deve essere personale e non delegabile
- deve tenere conto della pietas
Il medico ha una grave responsabilità: conciliare tutto questo.
Se non c’è consenso valido, il medico è ritenuto colpevole di ogni esito negativo dell’intervento di cura a prescindere. E’ questa una grave penalizzazione oggi solo di poco abbandonata.
Spetta al medico la prova di aver adeguatamente informato il paziente in tutti i suoi aspetti. Quindi è bene che tutto avvenga per iscritto.
La Corte ha articolato il seguente sillogismo:
- l’obbligo gravante sul medico di informare il paziente ha natura contrattuale, e la sua violazione costituisce perciò inadempimento (art. 1218 c.c.);
- colui il quale chieda, in giudizio, il risarcimento del danno da inadempimento di un obbligo contrattuale, deve provare solo l’esistenza del contratto, mentre spetterà al convenuto dimostrare o di aver adempiuto, ovvero che l’inadempimento non è dipeso da propria colpa;
- ergo, nel giudizio per il risarcimento del danno alla salute, asseritamente causato dall’imperizia del medico, deve essere quest’ultimo a provare di aver adempiuto all’obbligo di informazione.
IL DIRITTO DEL PAZIENTE A RIFIUTARE LE CURE
La sentenza di Cass. 23.2.2007, n. 4211 fissò tre princìpi:
– il paziente può legittimamente rifiutare le cure;
– il dissenso alle cure deve essere inequivoco ed attuale;
– il dissenso precedentemente manifestato non impedisce al medico di effettuare cure salvavita quando ricorrono tre condizioni:
- sia peggiorato il quadro clinico del paziente;
- il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà;
- possa ragionevolmente presumersi che, se fosse stato informato, il paziente non avrebbe confermato il dissenso.
Tale orientamento è stato successivamente ribadito dalla importante decisione pronunciata da Cass. 16.10.2007, n. 21748: dinanzi ad un paziente che rifiuti le cure dopo essere stato non solo informato, ma anche inutilmente indotto a recedere dal proprio intento, il medico deve astenersi dall’intervenire. Nella stessa decisione è stato affrontato il principale problema connesso alla liceità del rifiuto di cure salvavita: a chi spetti esprimere tale rifiuto quando il paziente sia incapace di intendere e di volere.
Alle decisioni che precedono si è recentemente aggiunta quella pronunciata da Cass. 15.10.2008 n. 23976, la quale ha ribadito il principio secondo cui il paziente ha sempre il diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte, precisando che il dissenso alle cure mediche, per essere valido ed esonerare cosi il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale: non è sufficiente, dunque una generica manifestazione di dissenso formulata ex ante ed in un momento in cui il paziente non era in pericolo di vita, ma è necessario che il dissenso sia manifestato ex post, e cioè dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità di rifiutare le cure anche quand’anche venisse a trovarsi in pericolo di vita.
2. LA RESPONSABILITA’ PENALE E RELATIVI RISCARCIMENTI. Osserva il Professor Avvocato Paolo D’Agostino dell’Università di Torino (comunicazione personale, 2014): occorre registrare che, a fronte di una sempre maggiore esposizione della classe medica (e, più in generale, sanitaria), alla responsabilità civile si è contrapposta una radicale riduzione delle condanne penali per i casi di malasanità. Sul punto basti segnalare il rapporto fatto dalla Commissione parlamentare di inchiesta della Camera su “errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali” nel periodo 2009-2012 che, se da un lato ha evidenziato come negli ultimi anni si sia assistito ad un incremento dei procedimenti penali per casi di presunta malasanità, dall’altro solo in pochissimi casi si è giunti ad una condanna del sanitario. Lo studio ha rilevato che i procedimenti per lesioni colpose a carico di personale sanitario sono 901 e rappresentano circa l’1,68% sul totale dei 53.741 procedimenti per lesioni colpose nelle circa 80 Procure della Repubblica valutate. In particolare 85 si riferiscono ad episodi registrati durante la gravidanza. I procedimenti per omicidio colposo a carico di personale sanitario sono 736. Rappresentano l’11,8% del numero complessivo di 6.586 procedimenti per omicidio colposo nelle circa 90 Procure della Repubblica valutate.
Dall’analisi della commissione si rileva inoltre una notevole differenza tra la percentuale dei casi riferibili a ipotesi di colpa professionale: l’1,68% per le lesioni e ben l’11,18% per l’omicidio. “Differenza che – spiega la commissione – potrebbe esser dovuta al fatto che, nel secondo caso, la lesione è più facilmente rilevabile perché il passaggio da uno stato di integrità fisica alla ‘malattia’ è netto e, allo stesso tempo, è più semplice ricostruire il nesso causale con una condotta colposa”.
Anche se sono pochi in termini assoluti i procedimenti per lesioni colpose (85) e i procedimenti per omicidio colposo (75), riferibili alla gravidanza e al parto, essi risultano tuttavia più rilevanti in termini percentuali (circa il 10%). E l’analisi evidenzia che le Procure in cui la media nazionale viene superata sono tutte al Sud, con prevalenza delle regioni Campania e Calabria, “anche se – sottolinea la commissione – a bilanciare questo dato concorre la circostanza che alcune eccellenze (Procure in cui la percentuale di sinistri è inferiore alla media nazionale) sono anch’esse nelle regioni meridionali (es. Bari, Caltanissetta, l’Aquila, Lecce)“.
Ma i problemi della sanità italiana non si esauriscono nei casi di presunto errore a danno al paziente. Incongruenze e malagestione evidenti impegnano grandemente la Magistratura. Infine il Presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta rileva: “Crescono le denunce per malpractice e, di conseguenza, – aggiunge – cresce la medicina difensiva da parte dei medici che cercano così di autotutelarsi, visto che il sistema assicurativo spesso preclude loro la possibilità di stipulare polizze. Un problema evidenziato di recente da ostetrici e ginecologi italiani, che subiscono una mancanza di politiche di tutela nei loro confronti, al punto da esser spinti ad uno sciopero, mai verificatisi in precedenza“.
La materia è oggi assai attuale e diverse sono le proposte per risolvere il problema. Alcuni auspicano che le Regioni o lo Stato organizzino e gestiscano un sistema assicurativo e che venga rideterminato e imposto un tetto all’ammontare dei risarcimenti, oggi ancora troppo elevati.
3. LO STATUS SOCIALE DEL MEDICO E IL RAPPORTO CON I PAZIENTI.
La “statalizzazione” della sanità, nata nel 1978 con la creazione del Servizio Sanitario Nazionale (L. 833/1978), ha indubbi vantaggi: copertura universale, gratuita (o quasi) al punto di erogazione dei servizi, relativamente poco costosa e quindi sostenibile. Per contro essa ha trasformato gran parte dei medici in dipendenti pubblici (o analoghi), ivi compresi i medici convenzionati che oramai sono ad essi assimilabili. Si è così molto spersonalizzato il rapporto medico – paziente; in molti casi il paziente non sceglie più il medico (o la sua è una scelta condizionata dalla possibilità di accesso). Il paziente inoltre è spesso diffidente nei confronti del medico e cerca verifiche rivolgendosi ad altri medici, ai conoscenti, alla stampa, alla rete internet. Confuso dalla massa di informazioni e dalla pubblicità che lo bombarda, privo di un riferimento medico certo, impressionato dalla cattiva stampa che affligge la sanità, finisce spesso per decidere male, per rifugiarsi in pratiche mediche o pseudo-mediche inutili o nocive. Sul versante del medico, questa situazione crea demotivazione. A ciò si aggiunga che per i medici dipendenti (specie ospedalieri) il loro ruolo si è progressivamente marginalizzato: oggi il governo del sistema è affidato ad una dirigenza amministrativa di nomina politica, e quindi spesso ad una scelta basata sull’appartenenza piuttosto che sul merito.
In uno stato di sudditanza più o meno pesante, il medico ospedaliero oggi è vincolato nelle scelte (si pensi all’organizzazione del lavoro e dei servizi, agli acquisti di farmaci e presidi sanitari, alle scelte del personale, ecc.), pur mantenendo la responsabilità piena del suo operato: l’indissolubile binomio potere-responsabilità è stato rotto e troppo spesso chi risponde non decide e viceversa.
Il peso di mansioni improprie di tipo burocratico e di responsabilità unitamente alla demotivazione e alla diminuzione dello stato sociale sono causa del burn-out che oggi affligge molti medici.
CONCLUSIONI
A questo punto è doveroso fare un bilancio ovvero valutare dal punto di vista del paziente e dei suoi interessi se l’attuale situazione è soddisfacente, ovvero se l’equilibrio tra garanzie per il cittadino ed efficienza dell’assistenza sanitaria è rispettato. Scrive Marco Rossetti nel succitato Quaderno del Massimario 2011: “Ogni sistema organico di norma, come quello della responsabilità civile, deve perseguire un giusto equilibrio tra garanzia ed efficienza. Norme troppo garantiste verso il convenuto compromettono l’efficienza del sistema, ma per contro norme marcatamente volte a velocizzare e semplificare il processo compromettono le garanzie del convenuto.
In tema di responsabilità medica, per lunghi anni l’interpretazione giurisprudenziale ha privilegiato l’effetto di garanzia per i medici su quello di efficienza: ad esempio concependo il medico come dominus del rapporto col paziente ed unico titolare del diritto di scelta terapeutica, addossando al paziente l’onere della prova della colpa del sanitario, concependo in modo ampio la nozione di intervento di “speciale difficoltà” e la conseguente limitazione di responsabilità ex art. 2236 s.c.
Agli inizi degli anni ’90 è iniziata una revisione di questa vecchia impostazione, che ha portato ad una progressiva riduzione dei tempi di garanzia per i medici, a beneficio di quelli di efficienza. E’ giunto ora il momento di chiedersi se questo processo non abbia a sua volta passato il segno, comprimendo le garanzie del convenuto al di sotto del minimo accettabile.
Un sistema così concepito, a mio modesto avviso, non è più un sistema di responsabilità per colpa, ma un sistema di responsabilità “di posizione”, dove il sanitario finisce per rispondere dell’insuccesso dell’intervento per il solo fatto di rivestire la qualifica di sanitario”.
Dal punto di vista della clinica il problema andrebbe attentamente riconsiderato, perché non credo che stiamo facendo il bene del paziente, che oggi vediamo esposto in un mondo che lo ha privato di un riferimento certo per la sua salute. Egli deve decidere facendo scelte che non sa fare ed è esposto ad un bombardamento mediatico che spesso lo induce a fare scelte contrarie al suo bene.
Anche la scelta del medico o della struttura sanitaria sono un buon esempio di scelta a volte non informata, così come lo sono alcune pratiche paramediche e l’assunzione di alcuni farmaci veri o presunti tali. Ciò accade anche perché, come già si è detto, il medico ha perduto gran parte del suo ruolo sociale di rispettato referente ed è divenuto il target di scandali per presunta malpractice o interessi illeciti e schiere di avvocati compiacenti addirittura sollecitano i pazienti ad intentare rivalse. Nella nostra società, inoltre, è molto cresciuto un atteggiamento di intolleranza dell’errore e di cultura del biasimo, passando dalla domanda di cura alla pretesa di guarigione.
Per contro le azioni ed omissioni dell’apparato organizzativo e gestionale sono assai meno evidenti ed è difficile che vengano perseguite dalla legge: in altri termini esiste una malpractice medica, ma non si parla di malpractice istituzionale. Anche in questo campo, tuttavia, sembra che qualcosa stia cambiando. Recentemente la Corte di Cassazione con sentenza n. 46336 del 12 novembre 2014 ha ritenuto che la causa di morte di un paziente fosse imputabile alla inadeguatezza della struttura ospedaliera e della sua organizzazione piuttosto che dei medici (assolti perchè il fatto non sussiste). Solo poco tempo prima, peraltro, la Cassazione con sentenza n. 18304 del 27 agosto 2014 si era espressa in maniera diversa, condannando un medico che operava in una struttura sanitaria inadeguata perché non aveva indirizzato la paziente verso un Centro più attrezzato, anche se ciò avrebbe potuto comportare per il medico provvedimenti disciplinari anche gravi da parte della struttura sanitaria stessa.
A chi giova tutto ciò? Siamo sicuri di operare per il bene del paziente?
Non credo. Così facendo inoltre abbiamo spinto i medici sulla difensiva. Oggi è meglio non fare, perché il sillogismo “Chi fa sbaglia, chi sbaglia paga, e quindi non fare = non pagare” diviene un suggerimento per i medici; oppure in molti casi è meglio fare troppo (specie superflue indagini strumentali) che non fare, per non essere accusati di colpevoli omissioni.
Ma quanto costa la medicina difensiva ad un Servizio Sanitario Nazionale già in affanno per scarsità di risorse? Secondo l’Agenas quasi 10 miliardi di Euro l’anno (Convegno Agenas dell’11 novembre 2014, Roma). A chi giova aggiungere spreco a spreco? Non certo ai cittadini.
In attesa che si rifletta su questi fatti e, sperabilmente, si migliori, offro ai medici alcuni suggerimenti. Per tutelarsi dai rischi collegati alle accuse di colpa nell’esercizio dell’attività professionale, il medico ha questi strumenti:
❶ ottenere il preventivo consenso informato del paziente al suo intervento medico. Attenzione: il paziente deve essere informato su tutti i dettagli e sugli esiti presunti e dimostrare di aver capito bene e di voler accettare in pieno e per iscritto il suddetto intervento, sia esso di cura o di prevenzione (cfr Volk RJ et al. Should CMS cover lung cancer screening for the fully informed patient? JAMA 312, 1193-94, 2014);
❷ registrare con cura ogni atto medico sulla cartella clinica del paziente, in modo che risulti ben comprensibile a tutti l’iter che ha portato alla condotta adottata dal medico;
❸ dimostrare di essere aggiornato. Solo in questo caso la sua attività può essere considerata autonoma e quindi accettabile dalla Magistratura in assenza di regole che valgano per tutti i casi e che è impossibile formulare;
❹ dimostrare di essersi attenuto alla buona pratica corrente, a Raccomandazioni e Linee Guida affidabili (ad esempio cfr Institute of Medicine Clinical guidelines we can trust – www.iom.edu/cpgstandards. March 2011) così da non ricadere nei casi di negligenza, imprudenza, imperizia o colpevole omissione.